La solitudine non esiste
La solitudine non esiste

La solitudine non esiste

“La solitudine non esiste”. Lo disse con quel suo tono casuale, quello che spesso sceglieva per insegnarmi le cose.

La solitudine non esiste: aveva scelto per parlarne un momento in cui passeggiavo -da sola, appunto- nella calura del pomeriggio estivo. Le colline si stendevano sonnolente sotto il sole, il cielo era immobile e vuoto di nubi, il mare luccicava un paio di chilometri più giù. Avrei proprio detto di essere sola. Anzi, la solitudine l’avevo cercata, scegliendo di uscire mentre tutti riposavano in attesa della frescura della sera. Ad ogni modo non obiettai. Quando apriva discorsi di quel genere era sempre una benedizione per me, un dono prezioso.

E poi, dopo tanti anni, avevo ormai imparato: non importava quanto incomprensibile, oscuro o finanche impossibile potesse sembrarmi, lui aveva sempre ragione. Sempre.

“Vedi il fiore completamente sbocciato laggiù? A breve il suo ciclo di vita terminerà, appassirà e morirà. Eppure non morirà solo: l’intera natura lo accompagnerà, canterà per il suo passaggio, lo accoglierà per dissolverlo e lo sosterrà nel trovare una forma nuova. Morirà senza nessuno accanto forse, ma non sarà solo. Allo stesso modo, il passero che cadrà dal nido tra qualche ora morirà lontano dalla madre e dalla propria covata, eppure non sarà solo. E così le nubi che il vento ha dissolto nella notte, la pioggia che gli alberi hanno bevuto, la terra che i vermi mangiano anche ora, sotto di noi. C’è dolore in natura, ma non solitudine. C’è la morte, ma non l’abbandono”.

Tacevo. Come spesso mi accadeva, notavo quanto sconnesso, dimentico, forse anche fuori luogo apparisse l’essere umano nel resto del creato.

Eppure io ricordavo d’esser morta già alcune volte in forma umana.

Me ne resi conto all’improvviso, come si ricorda d’un tratto il sogno notturno nel mezzo del giorno. Forse avrei avuto paura di quei ricordi in altri momenti, ma lui aveva la capacità d’infondermi un coraggio naturale e delicato, privo d’eroismi. Scorreva gradevole come un vento caldo lungo la schiena, pareva sostenermi senza volermi mai spingere, avvolgermi senza nulla frenare.

Così mi fu facile ritrovare la memoria di come, con l’arrivare della morte nel fisico, pian piano anche la mente perdesse potere, filtrasse sempre meno la voce dell’anima. Come s’aprisse un poco alla volta al sussurro d’una voce globale, comune, onnipresente. Somigliava ad un canto, o forse ad un vibrare continuo, eterno.

C’era dolore in quei ricordi, il morire che mi narravano non somigliava a un dolce assopirsi. Vi avvertivo a tratti una sorta di strappo con cui pian piano si disgregava l’essenza dalla materia. Tuttavia in essi non giungevo mai a disperarmi, a superare ciò che m’era possibile reggere: soffrivo, ma sempre entro il limite di quel che riuscivo a sopportare. E più progrediva il passaggio, più sentivo vicine le anime alla mia affini, senza più differenze di tempi o distanze, senza più impedimenti all’accettare di essere insieme.

“Vedi? Ricordi?”, mi domandava. “La solitudine esiste finché la mente regge il velo su cui l’illusione si proietta”.

Ricordavo, si. Alcuni erano ricordi miei, altri mi venivano dalle vite di quelli a me collegati, attinti dal pozzo comune di sapere e ricchezza che le famiglie d’anima e sangue condividono e sempre accrescono qui sulla Terra.

“Com’è bello però, questo fiore blu”, gli dicevo. “Mi sembra soffra più chi rimane e vive ancora la solitudine, piuttosto di chi se ne va”. Il mare scintillava lontano. Lui taceva e creava in me quel calore sottile che mi rendeva per un poco più forte di quel che ero di solito.


Poi, quando già credevo terminata la nostra conversazione, lo sentii dire piano, con dolcezza: “per questo anche voi che restate non siete mai soli”